L’uccisione del maiale
Racconto tratto dal libro “La mia isola” di G.C.
È l’alba, insieme a Gianna, una vicina di casa, ci avviamo alla porcilaia in un terreno roccioso all’uscita del paese. La casa piccola col tetto basso coperto di frasche è illuminata, qualcuno ci sta aspettando. Efisio, il marito e Nanni il figlio maggiore sono già indaffarati, tutto è pronto per un’operazione dalle connotazioni sacrali: l’uccisione del maiale.
Gianna porta con sé stracci bianchi e stoviglie di terracotta che poggia su un tavolo di marmo al centro della stanza. Dalla porta aperta grida quasi umane provengono da dentro il recinto dove sono segregati i maiali, Gianna mi sorride con indulgenza, sa che sono presa da un senso di orrore per quell’operazione a cui mi accingo ad assistere dopo averlo chiesto ripetutamente nei giorni che precedono l’evento.
Gli uomini lì fuori, stanno afferrando per la coda e per il muso uno dei maiali, il più grosso, quello che urla di più tanto da farmi coprire le orecchie con le mani per attutire quel pianto disperato che mi sconvolge.
Con uno sforzo enorme le braccia forti dei due uomini afferrano la bestia e la sistemano a pancia in su, dopo avergli legato con delle funicelle il muso e le zampe che si agitano furiose nell’aria; in quei momenti la curiosità che mi aveva spinto a chiedere di assistere all’uccisione del maiale è venuta meno, provo una gran compassione per quella bestia intrappolata. Intanto Gianna lava il collo della bestia dove viene praticata la lunga incisione per evitare che la sporcizia contamini il sangue che ne sgorgherà e che sarà raccolto in un recipiente; uno zampillo rosso sgorga dallo squarcio che viene praticato con abilità dal capofamiglia, e Gianna è pronta con “sa scivedda” a raccogliere quel liquido fluido, dopo con uno straccio, chiude la ferita e asciuga quello che sfugge e che imbratta il corpo del maiale. L’atmosfera è tesa e frenetica, i gesti sono decisi e veloci, tutti si affannano intorno alla bestia che si agita negli ultimi fremiti dell’agonia, osservo in disparte lo spettacolo cruento a cui assisto impietrita poi, quando tutto sembra finito e la bestia si affloscia tra le mani dei suoi carnefici, un’essenza legnosa viene incendiata attorno al corpo senza vita del maiale per bruciarne le dure setole. Agli uomini resta il compito di raschiare con un coltello le setole annerite, lavare e sfregare con un pezzo di tegola la cotenna prima di procedere a squartarlo.
Come un chirurgo d’altri tempi Efisio col suo grembiule schizzato di sangue, distende il corpo dell’animale sul tavolo di marmo e con un coltello affilato ne apre il ventre da cui fuoriesce la grande massa dell’intestino che una conca di terracotta raccoglie fumante e orrifico.
Il Fegato viene estratto con delicatezza da mani esperte, posto su un vassoio e offerto crudo all’assaggio dei presenti in rispetto di una ritualità antica. Ora il maiale è lì, squartato con tre canne che ne tengono aperto il ventre ad asciugare, mentre Gianna apparecchia in un piccolo tavolo di legno uno spuntino che interrompe il lavoro e consente al gruppo di rifocillarsi.
Stracci sporchi di sangue si ammucchiano nell’angolo a terra, coltelli e accette acuminate si raccolgono sul tavolo accanto al maiale squartato, tutto sembra assumere ordine e tranquillità, i gesti ora sono lenti e spossati, Efisio e Nanni sporcano di sangue l’acqua di un bacile dove lavano le mani arrossate, Gianna apparecchia con pane e formaggio e tutti ci sediamo per consumare quel pasto frugale che rinfranca i commensali e apre lo spazio ad una conversazione rilassata e briosa.
Dopo il pasto, il lavoro riprende con un ritmo più lento, si preparano i sanguinacci dolci, sangue condito con zucchero, spezie e frutta secca insaccato nell’intestino precedentemente lavato accuratamente con acqua calda, sale e limone. Il prodotto che se ne ottiene viene chiamato sanguneddu, un piatto prelibato molto apprezzato dalla famiglia e che viene conservato in una terrina in attesa di essere arrostito sulla brace ardente.
Il maiale si finisce di squartare il giorno dopo, si separa il prosciutto di coscia dalla spalla, si lavano lunghi metri di intestino che verranno riempite di carne per formare le prelibate salsicce, si tagliuzzano i ritagli per condire il ragù, si cuoce sulla brace il grosso fegato, si assaggia la cotenna tenera condita con il sale, mentre si disossa la parte rimanente del maiale, le ossa vengono salate insieme al lardo che appese ad una canna del soffitto vengono messe ad asciugare per condire i minestroni invernali. Infine si scioglie il grasso meno pregiato per ottenere lo strutto per tutto l’anno.
La stanza in cui ci troviamo è un’officina di lavoro, dappertutto pezzi di carne e ossa insanguinate, tutto intorno a me è un gran da fare, l’atmosfera è gioiosa, il maiale, è ora una fonte interminata di provviste per l’inverno, Gianna e i suoi uomini sistemano in grandi contenitori di terracotta la carne che porteranno via nella loro casa di paese, il figlio si occupa dei maiali rimasti nella porcilaia, tutto viene svolto con naturalezza e semplicità.
Prima di rientrare si preparano delle porzioni con un pezzo di carne e interiora avvolte in “sa napa” per “is mandadas” da mandare ad amici e parenti in dono, utili a mantenere vivi quei rapporti di solidarietà che tengono uniti la famiglia con il parentado e con chi è degno di un compenso per aiuti ricevuti.
La lunga operazione si conclude a tarda sera con un pranzo ricco e rumoroso, la soddisfazione di avere prodotto le provviste per tutta la famiglia supera ogni fatica, la tavola imbandita si offre all’ospite con generosità.
Nessuno sembra accorgersi del mio imbarazzo, quell’operazione solenne e cruenta ha turbato in profondità le mie viscere.