“In principio era il suono e il suono era presso la madre”
Mercoledì 18 ultimo scorso, la professoressa Teresa Loddo ci ha messo davanti una vasta prateria per molti di noi inesplorata. Ci ha invitato a sondare qualcosa che ci riporta alla nostra culla primordiale soffusa di suoni, di musica, di voci.
Alle sonde accostiamo facilmente l’aggettivo “spaziale”. Ci portano nell’infinitamente grande e nell’infinitamente lontano. Il sondaggio è inteso anche come un’operazione che va nel profondo dell’animo umano; scava nel profondo, questa volta alla ricerca di quanto succede nei precordi quando veniamo messi in pista nel crogiuolo della vita. Questo vale per ognuno di noi, singoli individui, quanto per l’intera specie. Dopo tutto si dice che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi (lo sviluppo, il formarsi dell’individuo porta in sé, proprio nell’evolversi dell’embrione, la ricapitolazione di quanto avvenuto nella storia evolutiva dell’ uomo).
Teresa ci ha svelato che fin dai primi istanti in cui abbiamo avuto sensazioni, una colonna sonora, un ritmo, ci ha presi per mano, prima che le mani ci fossero ancora. Si era come un diapason pronto a mettersi in vibrazione con le onde in cui si trovava immerso e le onde erano quelle della madre. “In principio era il suono e il suono era presso la madre”.
Qualche considerazione può essere fatta su questo fenomeno. Diamo per buoni tutti gli ammonimenti che ci mettono in guardia sulla tutela di un rapporto così stretto, unico e particolare ma, fino a che punto ci impegniamo a salvaguardarlo? Non ci verrà in testa che, siccome è bellissimo, non possano essere ammesse imperfezioni che ne offuschino la bellezza? Ci fu una volta in cui, con l’idea della perfezione, si cercò di preservare una razza, quella eletta.
La terapia di patologie diverse, attraverso la musica, è frutto dell’ intuizione che tutti gli uomini apprendano un “ritmo di vita” fin dai primissimi stadi della vita intrauterina. Di quei ritmi serbiamo nostalgia struggente. Non deve essere un sentimento di questi ultimi tempi se è vero che l’Uomo di Nenderthal, ancora prima di cinquantamila anni fa, alla sua morte veniva affidato, in posizione fetale, al grembo della Grande Madre in attesa di essere nuovamente partorito. Con la musica che ci riporta a quei ritmi possiamo riuscire a mantenere un contatto con la realtà quando la nostra mente se ne è andata nella nebbia del non ricordo.
E se il “diapason” che ci cresce dentro è “fesso”? Forte è la tentazione di buttarlo via, la legge lo consente. Non dimentichiamo che a decidere sul “guasto” debba essere esclusivamente la mamma. La sintonia fra le proprie corde e quel grumo di materia che a prepotenza si fa spazio, può non essere accettata dalla madre, in un frangente in cui le sue capacità di scelta possono essere fortemente condizionate.
Quando si decide per il no, che non è contraccezione, non è impedire che un “altro” abbia inizio, è reciderlo, l’ “altro”, per noi uomini è difficile capire cosa succeda nell’ “altra metà del cielo”. Abbiamo sentito, abbiamo letto ma nulla ci può consentire una partecipazione completa. È una differenza di “genere”, differenze che in tutti i modi si è cercato di eliminare ma, mai come in questo caso, buttando il bambino assieme all’acqua sporca.
Il nostro è il tempo dell’accoglienza. Chi si schiera per il rigetto, per esempio dei migranti, è considerato un “other man”, un barbaro incivile. A milioni e milioni si contano in tutto il mondo le non accoglienze “alla radice” e, in paesi come la Cina e l’India, a pagarne il prezzo più alto è il “genere” femminile.
Da noi in Italia negli ultimi dieci anni sono “spariti” due milioni di giovani fra i quattordici e i ventiquattro anni. Quanti per interruzione della “musica” e quanti per la contraccezione? Lasciando stare, per il momento, la motivazione del rifiuto, le conseguenze sono lì, belle e chiare. Se le cadenze sono queste, in questi fenomeni soggette a rapide accelerazioni, in poco tempo una “gente” verrà meno e ne sparirà persino il ricordo.
Questa volta le genti che vengono a contatto sono diverse, non sarà il caso di “Grecia capta” che “ferum victorem cepit” con un tranquillo e naturale evolversi della civiltà: le statue di Budda furono fatte saltare con la dinamite in Afganistan. La considerazione dei ruoli dei due generi e profondamente diversa e di conseguenza diversa è la sovrastruttura che regola i rapporti sessuali e la procreazione.
È su quest’ultimo terreno che si giocherà chi vince e chi perde. Noi del sesso ci siamo liberati, nel senso che ne abbiamo fatto un optional. Lo abbiamo messo sul tavolo del laboratorio e sul divano dell’analista, lo abbiamo sviscerato, destrutturato, lo abbiamo liberato di un sovrappiù di impiccio, la riproduzione, ed eccolo lì il nostro optional, come un tacco da dodici, una tetta rifatta o l’andare scalzi, atteggiamento, quest’ ultimo, che sta diventando in questi giorni molto fine.
Ci sfugge però un fatto che ci far star male e che necessiterebbe di terapia, magari musicale. Sentiamo sempre più il bisogno di regredire all’utero, da cui ci si può staccare senza traumi a patto di mantenere il “ritmo”. Il ritmo si è perso, la “musica” non ci accompagna più, perché quel ritmo, quella musica sono connaturati al sesso e alla riproduzione. Separarli rompe l’incanto.
Come si può credere nell’incantesimo quando si proviene dal positivismo che si è avvitato nel relativismo? L’eccezione, lo scarto, il peccato sono sempre esistiti: il legno di cui è fatto l’uomo è storto. Per l’uomo moderno o post moderno, scarti ed eccezioni possono facilmente essere tenuti sotto controllo, al limite, eliminandoli alla radice, quando nel “progetto” si evidenzia l’errore; il peccato non esiste, esiste il reato. Se ci badate, sono sempre tecnici quelli che decidono sul giusto e sull’ingiusto.
Una cosa ci differenzia dal resto del creato o della natura, se preferite: la libertà. Per crederci, però, è necessaria la trascendenza. In questo mondo c’è chi l’ha negata e la nega, la libertà, e con molte ragioni se l’orizzonte è tutto su questa terra. La libertà sembrerebbe essere l’ultima cosa nel musicale rapporto fra madre e figlio, almeno finché sono uniti. Di libertà, finché non è passato tutto sotto controllo, non era neanche il caso di parlarne: i figli sono un dono di Dio, si diceva anche quando il regalo era così ingombrante che se ne sarebbe fatto volentieri a meno.
Se non si voleva ricorrere agli estremi rimedi (e si ricorreva, eh, se si ricorreva) la “cultura”, una cultura molto responsabile, era l’unico baluardo. Che poi era la cultura del preservativo, da quando fu inventato, o del desiderio ammosciato, all’interno del matrimonio che allora andava per la maggiore. Si parla degli uomini, sia chiaro, che per le donne è tutto un altro discorso. Le donne non avevano gran voce in capitolo, sia dentro che fuori il matrimonio.
Le opzioni non erano tante, a parte l’impedimento fisico dell’incontro fra i gameti, i contraccettivi erano di là da venire: se non si andava a donne perdute, l’attenzione dipendeva dalla compagna più o meno casuale. Se la signora era sposata, in genere chi se ne assumeva gli oneri era lì, bell’e pronto; se non lo era, i contorni potevano assumere aspetti problematici. C’era sì, il matrimonio riparatore, qualche volta ricercato con la gravidanza da entrambi o da uno solo, di quelli che oggi chiamiamo partner. Ci potevano essere le schioppettate o il duello all’ultimo sangue, per lavare l’onore.
Perlopiù era una questione di rapporti di forza: ognuno razzolava nel suo cortile. Solo il gallo di alto lignaggio poteva permettersi amori ancillari o equiparabili senza pagare dazio, ma erano capricci momentanei. La situazione inversa era praticamente inesistente, solo nei grandi romanzi la signora si innamora del giardiniere. Quando succedeva si faceva di tutto per tenerlo nascosto: “Genti cun genti, fa’ cun lardu” si diceva e valeva in tutti i campi, non solo in quello del sesso.
La violenza non esisteva se non in casi straordinari: guerre, invasioni, follie maniacali. Chi la subiva, fuori di quei casi, stava zitta per paure di ogni tipo, non ultima quella di non essere creduta nel professare una difesa ad oltranza del suo “onore”. Al frutto della violenza ci avrebbe pensato dopo o qualcuno ci avrebbe pensato per lei; qualcuno con le stesse paure e debolezze. Si andava dall’aborto all’infanticidio, dalla “ruota degli esposti” alla decisione di tenerselo, il frutto del peccato, magari cacciata di casa per il disonore.
Così girava malamente la ruota della vita, fatta col legno storto degli umani, ma girava. Non era facile interrompere la sintonia dei “rumori, dei suoni e delle voci” che legavano madre e figlio, frutto di qualsiasi cosa fosse stato. Anche quando la sinfonia non procedeva secondo i canoni di Mozart, di Bach, di Beethoven e più di uno strumento strideva nel concerto, la vita comunque avanzava.
Ora, da qualche parte, sembra ritirarsi. In Italia, abbiamo detto, due milioni di giovani in meno rispetto a dieci anni fa. Stiamo cercando di raddrizzare il legno di cui siamo fatti e lo facciamo seguendo Elton John. Non ci preoccupiamo di lasciar scorrere la “musica”, della musica, ognuno di noi deve essere l’autore, l’interprete e lo strumento. L’Io al centro di ogni cosa: l’essenza del nichilismo.
Ora, per dimostrarvi che la lezione l’ho imparata e che al centro dell’attenzione anelo, beccatevi questa:
Tu’ tum… tu’ tum… tu’ tum…
Su coro est tochedhendhe
In sas intragnas suas
Pitzinnu est avantzendhe
Securu non sun buas
Sa luna est creschendhe
Piùsu non lu cuas
Cumìnciana sonendhe
Sas primas oras suas.
Tu’ tum… tu’ tum… tu’ tum
Elio